SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Capitolo V (II parte)

LA STRADA URBANA DEL SETTECENTO E DELL'ILLUMINISMO

Comunque, la strada come suite di pezzi pregiati, sta alla base anche d'una serie di giudizi negativi di de Brosses: per esempio, su Vicenza ("brutta e sgradevole", perchè le sue "belle case, oltre ad avere l'aria triste, non hanno per contorno che miserabili capanne, che le rovinano del tutto" (89)), e addirittura su Roma, la cui via del Corso, "è fiancheggiata in molti punti da bellissimi edifici, ma è assolutamente troppo stretta in proporzione alla sua lunghezza, e i marciapiedi costruiti da ambedue le parti, per comodità dei passanti, la rendono ancora più stretta" (90) - e dunque, ancora più disfunzionale, ai fini primari della contemplazione dei "bellissimi edifici".

Tale "poetica" scenografica sopravvive innegabilmente ancora nel Goethe del Viaggio in Italia, che è del 1787. A Vicenza, per esempio, Goethe parrebbe del tutto d'accordo con l'idea montesquieviana di isolare certi spettacoli architettonici, ovvero, come de Brosses, di liberarli da vicinanze occultanti (dal punto di vista puramente visivo) e degradanti (dal punto di vista del "significato" socio-culturale):

«Esaminiamo ora sul luogo stesso i maestosi edifici innalzati da quell'artista (Palladio), e notando come per le umili e ignobili necessità della vita essi non sono al loro giusto posto e come quei progetti sono quasi tutti superiori alle forze degli esecutori, e quanto poco infine tutti i preziosi monumenti di uno spirito così superiore sono adatti alla vita che si vive dai più (...) non è possibile esprimere l'impressione che (per esempio) fa la Basilica (...) accanto a un antico edificio a somiglianza di castello con finestre irregolari sparse qua e là. Quest'edificio, nel progetto dell'architetto, doveva certamente essere demolito» (91).

E ancora vicino a de Brosses, è Goethe a proposito del Corso a Roma:

«La via corre in linea retta da Piazza del Popolo a palazzo Venezia. E' lunga circa tremila cinquecento passi e racchiusa da altri edifici quasi tutti imponenti. La sua larghezza non è proporzionata alla lunghezza e all'altezza degli edifici. Ai due lati, i marciapiedi occupano dai sei agli otto piedi, in modo che per le carrozze non resta nel mezzo che uno spazio di dodici o quattordici piedi» (92).

Ora, è vero che qui la strada diventa, finalmente, anche un elemento comunicativo (mentre in precedenza essa era stata un elemento, per così dire, soltanto espressivo), ma è altrettanto vero che questa idea resta offuscata da quell'allusione a uno squilibrio fra larghezza della strada e altezza degli edifici, allusione che lega anche questo Goethe romano del 1787 comunque a ideologie settecentesche (93). Al più, potremmo dire che Goethe, fra la strada come espressione (della tradizione settecentesca) e la strada come comunicazione (di tempi a noi più prossimi), si trova in una posizione di equidistanza o, comunque, di non scelta. Lo stesso suo apprezzamento per una strada eminentemente comunicativa (fra l'altro perchè è extraurbana) come quella che da Palermo porta a Monreale, non manca di coinvolgere gli elementi, per così dire, decorativi della strada stessa, quali gli "alberi a destra e a sinistra", le "copiose fontane e getti d'acqua", e "i fregi e ornamenti" (94): anche l'occhio di Goethe continua ad essere attratto da quelle cose che, solum, attraevano gli uomini dell'alto secolo XVIII.

E' infine curioso che canone settecentesco della proporzione fra larghezza delle strade e altezza dei palazzi, ricompaia nell'utopia urbana, socialistizzante, di Charles Fourier del 1822, e che Fourier non lo giustifichi in termini, poniamo, di miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, ma appellandosi ad esempi, ancora una volta, di pura poetica architettonica:

«L'altezza delle costruzioni, tra il livello stradale e la base della capriata, non potrà superare la larghezza della strada: su una strada larga 9 tese, non si potrà costruire una facciata di 9 tese, perchè un raggio visuale non può elevarsi a più di 45 gradi. (Se l'angolo del raggio visuale fosse più ottuso, accadrebbe come per i palazzi di Genova o per il portico di St. Gervais: per poterli guardare bisognerebbe farsi portare un divano e sdraiarvisi supini)» (95).

Parrebbe  di essere tornati alla normatività di uno Scamozzi o d'un Milizia quantomeno.

Ma mi piace, a questo punto, ricordare una specie di "folgorazione" del Bernard Berenson orami ottantatreenne (siamo nel 1947), che può funzionare da chiusa (e da conferma più che autorevole) di queste testimonianze sulla strada specificamente settecentesca:

«Ieri mattina, passeggiando per la vecchia città di Lucerna, ho scoperto con stupore che le sue belle case, invece di guardare verso il lago o verso le montagne grandiose, stanno l'una di faccia all'altra nelle strade medioevali come in un suk orientale ovvero guardano dalla due sponde del fiume come fanno a Venezia i magnifici palazzi sul Canal Grande. Il che dimostra che fino al secolo diciannovesimo e fino all'epoca dei turisti romantici, i cittadini non s'interessavano del paesaggio, non costruivano per godere una veduta, per impressionare e rallegrare il prossimo e come dimostrazione di opulenza finanziaria e di gusto artistico. Tutta opera dell'uomo, fatta perchè l'uomo la contempli in un universo nel quale l'uomo era il centro di tutto. Dacchè l'uomo è completamente assorto in quello che non ha creato, si è disumanizzato diventando più e più astratto; cioè un Kulturtier» (96).

Che è anche, oltre la perfetta interpretazione di fondo, una grossa concezione del "romantico" Berenson allo spirito del razionalismo e dell'aristocrazia-borghesia illuminante.

Passando, ora, alla strada urbana propriamente illuministica, essa è fatta, come ho detto, di tutti gli elementi di cui sopra più la folla e il traffico, che ci si augura sempre più intensi (anche se su questo punto andrà ricordato, dentro lo stesso Illuminismo, qualche momento discorde) (97).

Dipendono, comunque, da queste idee tutte le riserve per esempio su Torino, che conosciamo, ma anche una intera serie di settecenteschi giudizi negativi su altre città e cittadine italiane.

Per Montesquieu, Padova ha "7 miglia di perimetro; ma è quasi deserta" (98). Sulla strada Torino-Alessandria, "tutte le piccole città e i villaggi (...) come Chieri, sono stranamente desolati. Non vi si vedono abitanti, ma grandi case inutili" (99). Alessandria "è una città grande ma poco popolata" (100). Quanto a Lucca:

«E' una città che può contare 22.000 anime. Il commercio è andato un pò giù da quando i suoi manufatti di seta non si smerciano più tanto bene in Germania, e i principi, specie l'Imperatore, opprimono il commercio. La seta è prodotta in parte nel suo territorio e in parte è importata dalla Romagna. Il signor Colonna mi ha detto che ci sono a Lucca circa 5.000 persone che lavorano la seta. E' molto per una città così spopolata». (101).

"Poco popolata" è, per Montesquieu, anche Pisa, quantunque abbia i "segni d'una città che lo è stata molto un tempo. Dicono che abbia 5 miglia di circuito. Un tempo aveva grandi sobborghi; ma oggi la poca popolazione che c'è è tutta dentro le mura" (102): Manco a parlare, poi, d'una Terracina, "miserabile città di 2 o 3.000 abitanti" (103).

Giudizi che complessivamente non mutano con de Brosses, undici anni dopo. Sintomatico, per la ricchezza dei particolari, quello su Pavia:

«Non so perchè mi fossi formato di questa città, che per molto tempo è stata la sede dei re longobardi, un'idea superiore alla realtà. E' relativamente piccola, più lunga che larga, con brutti e tristi edifici di mattoni e vie larghe e deserte. Solo lo stradone che costituisce la parte principale della città, è affollato di gente e di botteghe. Questi bravi lombardi devono avere immaginato di abitare in una città interessante: orgoglio assai mal riposto, giacchè le mille cose che si ostinarono a portarci a vedere erano estremamente misere». (104).

Vie "larghe e deserte" sono anche quelle di Lodi, "larghe, dritte e deserte", quelle di Cremona (non bastano dunque - giova ripeterlo - certi elementi "settecenteschi" a soddisfare l'Illuminismo: una certa distinzione appare sempre più doverosa). Quanto a Padova, essa fa  a De Brosses lo stesso effetto che a Montesquieu ("Non è possibile vedere niente di più povero, di più triste e di più disabitato") (105). Ferrara:

«La città di Ferrara è vasta e spaziosa. Sono questi, credo, gli attributi che le convengono; vasta, perchè è grande e deserta; spaziosa perchè vi si può passeggiare assai comodamente in magnifiche strade tracciate con la squadra, di una lunghezza impressionante, larghe in proporzione, e sulle quali cresce la più graziosa erbetta del mondo. Peccato che la città sia deserta; non per questo è meno bella; e non tanto per i suoi magnifici palazzi, ma perchè non c'è in essa un edificio brutto. In genere sono tutti fatti di mattoni e abitati da gatti turchini: altro essere vivente, almeno, non vedemmo alle finestre» (106).

Diversa è dunque Ferrara rispetto ad altre città dello stesso calibro, intanto perchè de Brosses vi incontra la famosa "addizione erculea", la cui urbanistica coincide, per molti aspetti, coi principii della sua, e poi, perchè la larghezza "proporzionale" delle strade, gli permette evidentemente, di godervi appieno lo spettacolo dei "magnifici palazzi". Eppure, anche qui, de Brosses, non solo tace completamente (e significativamente) sulla parte medievale della città, ma sottolinea per ben due volte l'assenza dell'elemento illuministico della folla e del traffico (107).

A tale elemento, è sensibile, naturalmente, anche Sade (e per esempio Piacenza, è, ai suoi occhi, "grande ma spopolata" (108) - siamo nel 1775); mentre Goethe, questo elemento trovandolo a Verona, si entusiasma:

La popolazione qui va e viene fra la più grande animazione, e specialmente in alcune vie, in cui le botteghe e le officine si toccano l'una l'altra, assume una fisionomia piena di gaiezza (109).

Non del tutto sorprendente, così, quanto gli accade a Ferrara:

«Sono arrivato stamane alle 7 (orologio tedesco) e già mi preparo alla partenza per domani. Per la prima volta mi sento sorpreso da non so che uggia, in questa che pure è una grande città, ma tutta in piano e spopolata» (110).

Dove però, se la notazione sulla scarsità di gente e sulla conseguente "uggia" ch'essa provoca nel visitatore, s'inserisce certamente nel Settecento illuministico, da questo Settecento Goethe parrebbe cominciar a distanziarsi è un particolare da tener a mente.

Per un certo motivo, a Goethe piacerà, invece, Cento, cittadina ch'egli descrive così:

«Una piccola e simpatica città, ben costruita, di cinquemila abitanti circa, piena di movimento e di vita, linda, in mezzo a una pianura tutta coltivata a perdita d'occhio» (111).

Una prima critica, quantunque oggettiva e per così dire "di sbieco", alla strada illuministica, mi piace segnalarla in Chateaubriand, quando, a Roma nel 1803, egli scrive:

«Cicerone trovava nelle lunghe gallerie dei palazzi, nei templi domestici che ivi erano nascosti, la pace perduta nel commercio degli uomini. Persino la luce che si riceve in queste abitazioni sembra inspirare la quiete, perchè calava quasi sempre dalla volta o da finestre aperte in alto: la luce perpendicolare, così eguale e tranquilla, onde sono rischiarate le nostre sale di pittura, serviva, per così dire, al romano a contemplare il quadro della sua vita. A noi occorrono finestre che diano sopra le strade, i mercati, i quadrivi. Ci piace il moto e il rumore: il raccoglimento, la gravità, il silenzio ci annoiano» (112).

Qui si tratta di un'architettura "da interni", e che implica la strada, come dicevo, solo indirettamente. Ma è senza dubbio anche da cose come queste che si genereranno certe idee urbanistiche di Nietzsche ancora nel tardo Ottocento:

«Bisognerà una volta, e probabilmente in un prossimo futuro, renderci conto di quel che manca soprattutto alla nostre grandi città: luoghi tranquilli e ampi, ampiamente estesi, per la meditazione, luoghi con lunghi loggiati estremamente spaziosi per il tempo cattivo o troppo assolato, nei quali non penetra il frastuono dei veicoli e degli imbonitori, e in cui un più squisito rispetto delle convivenze vieterebbe anche al prete di pregare ad alta voce: fabbricati e pubblici giardini che esprimerebbero nel loro insieme la sublimità del meditare e del solitario andare (...)». (113).

Parleremo più avanti, in sede specifica, di questa urbanistica utopica nietzscheana.


(89) Scrive per esempio l'inglese JOHN GWINN (cfr. London and Westminster Improved. A discourse on Public Magnificence - 1766 - antologizzato in trad. it. da PAOLO SICA): "E' desiderabile che i piani di tutte le grandi città siano costruiti da linee rette, e che le strade si incontrino ad angolo retto, poichè eccetto che in casi di assoluta necessità gli angoli acuti dovrebbero essere sempre evitati, in quanto comportano spreco di terreno e menomazione degli edifici". A una simile poetica urbana doveva aderire, già nel 1727, JONATHAN SWIFT (cfr. Viaggi di Gulliver in vari paesi lontani del mondo, trad. it. UGO DETTORRE, Milano, Rizzoli, 1981, vol. I, p.87 - parte I cap. IV), quando immaginava così Mildendo, la metropoli dei Lillipuziani: "

(90) MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., p. 108. Di questa strada, aveva detto, nel 1705, JOSEPH ADDISON (in Remarks on Several Parts of Italy, cit. in CESARE DE SETA, p. 158) che essa "non è che una doppia fila di magnifci palazzi di geniale struttura, fatti per accogliere i più grandi principi della terra".

(91) MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., p. 130.

(92) Ibid. p.207.

(93) MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., p. 237.

(94) Ibid. p. 241 

(95) Ibid. p. 301.

(96) MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., p. 325.

(97) Ibid.

(98) MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., pp. 198-199.

(99) CHARLES de BROSSES, op. cit. p. 6 

(100) Ibid. p. 31.

(86) De Brosses,

(87) Alludiamo

(88) ALESSANDRO TASSONI,


Theorèin - Settembre 2006